16 aprile 2024

Trudy, di Massimo Carlotto

 

Prologo

Da un lato fu il desiderio, dall’altro la necessità di appartarsi in un luogo tranquillo, a far incrociare i destini di tre uomini e di una donna alle ore due e venti del 27 gennaio 2008.

Scorrere le pagine di questo romanzo è come leggere in controluce certi articoli di cronaca che troviamo sui quotidiani nazionali o locali.

Aziende che sfruttano la manovalanza messa a disposizione da compiacenti agenzie, da finte cooperative, per migliorare le performance di profitto e frodare il fisco.

La criminalizzazione dei sindacati di base, finiti al centro di varie inchieste e accusati di reati spesso sfumati all’indomani del processo: sindacati a cui è rinfacciata la colpa di fare il loro lavoro, ovvero proteggere gli sfruttati e costringere le aziende a negoziare.
Il cuore segreto di una nazione che si fonda sul ricatto, sulla ricerca di notizie riservate sugli avversari o sulla protezione dei propri di segreti, quelli che devono essere custoditi col massimo riserbo per non distruggere per sempre una carriera politica, per non rovinare un segretario di partito.

Il potere che protegge sé stesso, come le carovane circondate dai cattivi indiani, coi suoi soldi, coi suoi potenzi mezzi: quel potere che di fatto è indistinguibile dal potere criminale con cui spesso si trova a braccetto. Negli scandali per corruzione, nelle ecomafie, nei cantieri per le grandi opere.

Per questa protezione serve del personale esperto, con tanto di pelo sullo stomaco, con conoscenze giuste nel mondo delle forze dell’ordine per carpire delle informazioni o per condizionare le indagini. Con le conoscenze giuste anche nel mondo dell’informazione, per creare un caso, per indirizzare una storia, per costruirci attorno il giusto vestito, affinché nessuna macchia di fango sporchi le persone che stanno sopra.

Come i pretoriani nella Roma degli imperatori.

Normalmente in qualsiasi romanzo l’autore presenta i suoi protagonisti man mano che scorrono le pagine: no, in questo romanzo Massimo Carlotto ha deciso di contravvenire anche a questa regola, perché nel prologo troviamo il racconto di un pretesto, l’evento di cronaca che ha fatto sì che i due protagonisti antagonisti arrivassero ad incontrarsi.

.. cosa vuole esattamente da me? L’uomo sorrise. – Offrirle un lavoro.
– Scusi?
– Ha mai pensato di passare al settore privato?

Da una parte l’oscuro commissario di polizia, Gianantonio Farina, chiamato da un senatore a distogliere l’attenzione da un caso di cronaca, un imprenditore che ha ucciso una prostituta e il cui nome deve rimanere sottotraccia, perché quell’uomo era molto vicino a pezzi grossi della politica, aveva anche contribuito alla stesura di leggi vicini al suo ambito lavorativo, il mondo della security privata.

.. il settore privato negli ultimi quindici anni si era sviluppato in modo straordinario in Italia, per difendere i clienti o per tutelare gli interessi di lobby e cordate poteva rivelarsi necessario annientare gli avversari attraverso attività di dossieraggio ..

Cosa meglio di un dossier delicato, per colpire un avversario? Specie oggi dove la politica spinge per limitare la pubblicazione delle intercettazioni per evitare che i peccati dei potenti possano essere svelati al popolo bue. Ma non c’è solo questo, come compiti nel comparto della sicurezza privata, ci sono anche le questioni di lavoro:

– Stasera bisogna caricare le rumene della Nuova Grafica e portarle fuori regione, – annunciò Baldi. – Ordine del Dottore. – Che succede? – Domani mattina i carabinieri del nucleo ispettorato del lavoro di Prato si presenteranno per una perquisizione  a caccia di «fantasmi»...hanno ricevuto una soffiata dall’interno, una zecca che non si fa gli affari suoi la trovi sempre..

Stiamo parlando di quel genere di sicurezza per tutelare la propria immagine, se non i propri segreti, che puoi ottenere senza far ricorso alla giustizia per ovvi motivi: scioperanti che stanno bloccando la produzione, un investigatore troppo zelante. Oppure un commercialista della provincia lombarda che all’improvviso è scomparso senza lasciare tracce.

Questa è l’indagine che viene affidata alla NSG, l’azienda di sicurezza di cui Farina fa parte, dove viene chiamato “il grigio”, per il suo saper non ostentare il suo potere, per il suo sapersi muovere nei meandri del vero potere. Scoprire che fine ha fatto un commercialista di Merate, nel lecchese, che gestiva certi fondi di un certo partito politico: un personaggio senza troppi scrupoli sparito in una mattina di maggio.
Ecco che qui incontriamo il secondo protagonista, anzi la protagonista.

 Dov’è che devo andare? 
– A Cesenatico. Te ne vai al mare, – rispose Farina. 
– A far cosa? – chiese l’altro stupito. 
– A fare compagnia a Trudy.

Trudy, come la compagna di Gambadilegno, il lestofante nemico di Topolino: è questo il nomignolo che viene affibbiato a Ludovica Baroni, la moglie del commercialista pieno di segreti, che dopo la scomparsa del marito si è rifugiata nella sua casa a Cesenatico, lontano da tutti. Ma non dagli occhi degli investigatori della NSG che devono sorvegliarla. Ma per quale motivo devono sorvegliare questa donna dall’aria così comune, una “bambolina” dalle belle forme, come la chiama uno di questi? E per quale motivo il committente della NSG è così interessato a capire che fine abbia fatto il commercialista scomparso?

Baroni è convinta che sia fuggito con un’altra donna, e non ha mai detto o accennato nulla in merito al denaro che Riva gestiva per conto vostro.

– Non mio, – chiarí in tono brusco il senatore. – Un partito è una macchina complessa..

Il grigio, ovvero il dottor Farina, che da ex poliziotto si è ritrovato ora nel ruolo di pretoriano, custode dei segreti del potere, della classe dirigente del paese. E dall’altra parte l’ex commessa di un negozio che aveva ceduto all’insistente corte del ricco del paese, magari sperando vivere il suo sogno, quello che la sua famiglia, la sua vita, non le avrebbe mai consentito di raggiungere.

Viene spiata, Ludovica, osservata e intercettata tutti i giorni, per capire se sa qualcosa, se può condurre ad una soluzione il mistero della scomparsa del commercialista dei potenti.

E man mano anche noi andremo a scoprire il dietro le quinte di questa storia, i segreti dietro quel matrimonio di facciata, ben lontano dal sogno di Cenerentola.

Pensava di avere tutto sotto controllo, il pretoriano Farina: sia per quella faccenda in Toscana, un sindacalista finito in coma dopo un’aggressione, un caso di cronaca che era stato abile nel dirottare verso una narrazione contro i sindacati di base, seguendo la pista di una faida interna. Credeva di controllare anche Trudy, cosa aspettarsi d’altronde da quella piccola donna?

Dopo aver letto Trudy, camminando per strada ti verrà voglia di guardarti le spalle.

Quanto sappiamo del volto del potere che le inchieste della magistratura riescono a mostrarci solo in parte e solo a sprazzi? Trudy è il racconto del nostro passato e del nostro presente, non farete fatica a far combaciare certi passaggi narrativi col nostro presente (sia nel mondo del lavoro che in certi equilibri di potere fondati sul ricatto): mai come in questo romanzo la frase “Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale ”, ha un sapore quasi ironico, una volta arrivati alla fine di questo romanzo, il cui finale è scolpito in queste parole

La lotta tra il bene e il male nella modernità non ha più eroi da esibire.

Che, in altre parole, vuol dire anche che gli unici eroi in questa modernità che ha un sapore così antico, sono proprio le persone comuni, la cui vita non è mossa solo da ambizione e cinismo.

La scheda del libro sul sito di Einaudi

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14 aprile 2024

Spigolature .. (a proposito di stampa libera e regime)

Oggi sembrano tutti delusi, i nostri editorialisti con l'elmetto, del fatto che l'attacco coi droni dall'Iran non abbia portato alla guerra.

La guerra contro l'Iran, che oggi è sotto monitoraggio dei nostri ministri, come Crosetto, l'ex lobbista dell'industria delle armi e Urso, ministro delle imprese che fino al 2021 con le sue imprese era in affari proprio con l'Iran.

Da l'Espresso:

Pezzi di ricambio di elicotteri. Giubbotti antiproiettile. Aerei adattabili all’uso militare. Incontri con alti funzionari della guida suprema della Repubblica Islamica dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei. E un contratto di collaborazione con una società coinvolta in un’inchiesta per traffico di materiale «dual use», dal doppio uso civile e militare, esportabile solo con specifiche autorizzazioni ministeriali. Sono i contenuti, che L’Espresso pubblica in esclusiva, di alcune lettere commerciali e contratti riconducibili alla Italy world services, società di cui è stato legale rappresentante fino al giugno del 2018 il senatore di Fratelli d’Italia Adolfo Urso, presidente del Copasir, il comitato parlamentare che controlla i servizi segreti.

Oppure la guerra contro la Russia, dove il presidente Macron voleva mandare i soldati al fronte.

Lo stesso Macron che, leggendo sul Fatto Quotidiano, è il maggior acquirente europeo del gas liquido russo. Vedi il caso:

Parigi è il primo importatore di gas liquefatto russo in Europa. Nei primi tre mesi del 2024, la Francia ha aumentato silenziosamente e come nessun altro in Europa le importazioni da Mosca arrivando a 1,5 milioni di tonnellate di gnl, pari a più di 600 milioni di euro, più di qualsiasi altro Paese dell’Ue. È quanto emerge da un report del think tank Centre for Research on Energy and Clean Air (Crea). Un dato che appare paradossale proprio mentre Emmanuel Macron ribadisce di non voler escludere l’invio di truppe Nato in Ucraina e si è ritagliato il ruolo di primo alleato di Kiev perché la Russia “non può e non deve vincere” questa guerra.

Certo, per leggere queste notizie diciamo scomode, che raccontano l'ipocrisia occidentale, servono giornalisti liberi, non sottoposti al controllo della politica, che sanno che devono rispondere delle notizie pubblicate, ma liberi da ricatti e censure.

Giornalisti che magari non intrattengono rapporti poco puliti coi servizi segreti, come successo anni fa con un ex giornalista di Repubblica oggi a Il Giornale che nei giorni scorsi si è messo a scrivere proprio dei colleghi di Report e del segreto di stato posto sull'incontro di Renzi con l'ex dirigente del DIS Mancini.

11 aprile 2024

Un indizio sulla pelle di Stephen Spotswood


«L’accusa chiama a deporre Lillian Pentecost.»
L’aula fu sommersa da un’ondata di bisbigli rumorosi. Il giudice Harman, un uomo dal martelletto facile, per una volta lasciò correre. Non se la sentiva di biasimare i presenti. Erano rimasti seduti spalla contro spalla sulle scomode panche del tribunale per tre lunghi giorni, guardando il calendario passare da luglio 1946 ad agosto 1946 mentre arrancavano tra i noiosi meccanismi del sistema accusatorio.

Un intero circo come scena del crimine, è questa l’ambientazione quanto meno inusuale per il secondo romanzo di Stephen Spotswood (“Un indizio sulla pelle”) con protagoniste la geniale detective Lilian Pentecost e l’assistente Will Parker. A me che sono un amante del cinema in bianco e nero, è subito venuto in mente il film del 1936 Il terrore del circo dove il detective Charlie Chan (inventato dallo scrittore Earl Derr Biggers) era ancora interpretato da Warner Oland.

Non più un delitto dentro la stanza chiusa, dunque, come nel precedente (e primo romanzo della serie) “La fortuna aiuta il morto” ma in delitto avvenuto dentro quel mondo magico e misterioso che è il circo, almeno in quegli anni dove il secondo conflitto mondiale era appena finito: un mondo che la giovane Will conosce molto bene, avendoci lavorato per diversi anni dopo essere scappata di casa e da un destino che poteva essere tragico.

Proprio dal proprietario di quella che un tempo era stata la sua casa, la sua nuova famiglia, il circo di Hart and Halloway’s, arriva un telegramma in cui Bob la informa della morte di Ruby Donner, la donna tatuata (“Un assurdo paesaggio di rose e giovani marinaie, cuori, sirene e galeoni dei pirati, oltre a un serpente verde smeraldo avviluppato attorno alla gamba sinistra”), trovata accoltellata in un vialetto interno della struttura.

A rendere ancora più drammatica la morte, la polizia ha arrestato, credendolo l’assassino di Ruby, il lanciatore di coltelli, Valentin Kalishenko, che era stato mentore di Will nella sua parentesi circense.

RUBY TROVATA ASSASSINATA. CIRCO ATTUALMENTE A STOPPARD, VIRGINIA. RICHIESTA ASSISTENZA PROFESSIONALE. BH
BH era Big Bob Halloway, proprietario e gestore dello Hart and Halloway’s Traveling Circus

Il telegramma raggiunge Will (e la signora P, come ogni tanto la chiama) mentre si sta chiudendo il processo contro un pompiere piromane, la cui maschera di difesa viene fatta crollare da un trucco psicologico messo in atto dalla signora Pentecost.
Le due donne si precipitano in treno verso la cittadina di Stoppard in Virginia, dove il circo di H&H aveva fatto tappa, per assistere l’amico Valentin, “il russo”.

Su di lui la polizia ha racconto una serie di indizi abbastanza schiaccianti anche se, come spiega il “Big” Bob Halloway a Willy, in questa circolano “parecchi mazzi truccati”: il coltello che ha ucciso Ruby era il suo e con lei quella sera avevano litigato. A peggiorare le cose c’è il fatto che il “russo” non si ricordi nulla di quella sera del delitto, per essersi sbronzato.
Questa indagine è per Will, che è la voce narrante di tutta la storia, come un viaggio nel passato: qui una ragazzina malconcia ed esausta era stata accolta, aveva lavorato un po’ con tutti, a fianco del mago, con l’esperto di serpenti, aveva ballato un burlesque con vestito attillato. Big Bob, come anche Valentin Kalishenko, avevano visto qualcosa in lei, quelle doti che poi avrebbe imparato a mettere a frutto come assistente della celebre detective Lilian Pentecost.
Con Ruby c’era stato anche dell’altro però, qualcosa di molto imbarazzante per Will che si era un po’ innamorata di quella ragazza “una ragazza in technicolor in un mondo in bianco e nero”.
Tutto questo è un motivo in più per scoprire il vero assassino e sconfessare la sicurezza del capo della polizia, non lo deve solo a Ruby ma anche al suo vecchio mentore.

Anche perché ci sono dei particolari che non tornano in questa storia: Ruby era scappata proprio da questa cittadina, Stoppard, tanti anni prima, quando si capiva subito che quel mondo provinciale, bigotto, chiuso, non faceva per lei. Non è un caso che sia stata uccisa poco dopo essere tornata lì. Non solo, quella sera, raccontano i suoi compagni, sembrava preoccupata, doveva dire a Bob qualcosa di importante prima di essere accoltellata, che cosa? E chi era quell’uomo con cui era stata vista parlare?

C’era un uomo misterioso che aveva conversato a lungo con Ruby meno di mezz’ora prima che venisse uccisa. Forse qualcuno del passato..

Chi poteva avercela con Ruby, all’interno del circo, dove nonostante le liti e le tensioni tra i membri, si è tutti una grande famiglia quando inizia lo spettacolo? Forse l’unico modo è seguire la regola della signora P.

Se dovessi attribuire un modus operandi a Lillian Pentecost, sarebbe proprio questo. Capisci la vittima e forse capirai le sue azioni. Se riesci a fare questo, potresti scoprire come si è imbattuta in un assassino.

Forse non tutti stanno raccontando la verità alle due investigatrici, forse nemmeno le persone del circo sono state sincere: c’è, nei loro racconti, quelli di Mysterio, del fachiro, di Madame Fortuna.. un non detto, come se stiano nascondendo qualcosa. Per proteggere la memoria di Ruby o per altro?
Ma anche quel piccolo paese nasconde qualcosa di oscuro dietro la facciata placida e tranquilla. A cominciare dalla comunità pastorale, dedita a salvare l’anima delle persone, ma non ben disposta a ricordare quella della povera Ruby, “anima perduta” per la morale di quelle persone semplici.

Lui e Sorella Evelyn si scambiarono un’occhiata.
«Lei si era un po’... persa» disse la donna. «Prima ancora di andarsene.»

«Persa?» «Con il Diavolo» spiegò, come fosse un’ovvietà.

O forse l’ex fidanzato di Ruby ai tempi del liceo, Joe, che oggi è un poliziotto in quella cittadina di campagna e con cui Will ha piccolo flirt (violando le regole che ogni investigatore dovrebbe rispettare, mai mischiare il lavoro col piacere).
O forse persino lo zio di Ruby, che con l’eredità lasciata potrebbe risollevarsi dalla miseria.
Chi ha ucciso la donna tatuata? Da chi devono guardarsi le spalle Willie e Lilian?

In questo secondo romanzo c’è l’indagine per omicidio che rimane al centro del racconto, ma c’è anche un omaggio alla magia del circo, un qualcosa che ha affascinato da piccolo Stephen Spotswood: un circo che è come una famiglia, che non è come quella dove nasci e non scegli, una famiglia con gioie e dolori.
E, in parallelo, l’io narrante di tutta la storia, Willowjean Parker , ci renderà partecipi del viaggio nel passato a cui è costretta, un viaggio in cui viene messa di fronte ai suoi problemi caratteriali, quella rabbia che si porta dentro e che deve imparare a gestire, prima di farsi molto male.

Rimasi sdraiata a rigirarmi pensando alle parole di Frieda. Al fatto che la cosa che mi muoveva davvero era la rabbia, e rischiava di farmi fuori prima ancora di un proiettile..

Dietro la morte della povera Ruby si nasconde una storia ben più complessa, che parla di vecchi rancori, di vecchie ferite (non solo metaforiche) della guerra, di gente pericolosa che nell’America del maccartismo preoccupava poco l’FBI.

Un intrigo che solo la mente brillante di Lilian Pentecost riuscirà a sbrigliare, nonostante la fatica di dover condurre un’indagine così scomoda lontano dalla sua casa, nonostante quella malattia con cui è costretta a convivere, la sclerosi. Perché, come tutti i grandi detective (come per esempio Nero Wolfe, a cui non è difficile fare un accostamento), Lilian Pentecost è capace di leggere tutti i particolari della scena del crimine e delle persone:

«È tutto rilevante» dissi.
«Sì» rispose il mio capo. «Quando si tratta di capire le persone, sì.»

La scheda del libro sul sito di Mondadori e il racconto del libro da parte dell’autore.

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08 aprile 2024

Presadiretta – A tutto idrogeno

Il viaggio dell’ultima puntata di Presadiretta parlerà dell’idrogeno verde, un gas che non emette co2, che ci consentirà di sganciarci dalle energie fossili.

Poi un passaggio in Svezia dove si producono le batterie a ioni di sodio.

In Italia invece il governo Meloni punta su costosi rigassificatori con cui trasformare l’Italia nell’hub del gas, perché, visto che si deve consumare (e si sta consumando) sempre meno gas?

L’idrogeno verde

Al centro Enea di Casaccia sta crescendo la prima Hydrogen Valley italiana, dove sperimentare l’idrogeno verde: idrogeno prodotto da energie rinnovabili (e non da combustibili fossili) il cui surplus può essere dedicato all’idrogeno “green”.

Per produrre idrogeno si usa il processo di elettrolisi per scindere la molecola dell’acqua: l’acqua diventa un gas combustibile pulito, che non ha nella sua molecola il carbonio.

Serve tanta energia elettrica e serve tanto idrogeno: Presadiretta è andata a Livorno dalla Erre2, dove si producono i macchinari per generare l’idrogeno verde, in loco proprio nelle grandi produzioni industriali che oggi usano fonti energetiche inquinanti.

La tecnologia ad idrogeno andrà in parallelo a quella dell’elettrico, può convivere: è uno strumento in più per arrivare alla decarbonizzazione, la ricerca intanto sta andando avanti per arrivare a celle per centrali a idrogeno meno ingombranti.

Alla Erre2 esportano le loro macchine in Francia e Inghilterra, sono fiduciosi che questa tecnologia, l’idrogeno green, avrà un futuro nella transizione energetica: la Hydrogen Bank sarà finanziata dalla banca europea e su questo settore siamo addirittura davanti alla Cina.
Questi impianti per la elettrolisi sono ancora montati a mano, ma man mano che l’idrogeno verde andrà avanti la sua produzione avrà costi minori.
Come per le altre energie rinnovabili, come il solare: dove c’è il sole oggi produrre energia dal fotovoltaico costa meno rispetto ad altre fonti – spiega Marco Alverà a Presadiretta – il mix del futuro sarà 50% elettricità e il restante deriverà da un combustibile (per le navi, per il riscaldamento, per fare l’acciaio). Questo secondo 50% sarà per metà combustibili a idrogeno e l’altra metà combustibili fuel.

Con l’idrogeno verde si potrebbe ridurre le emissioni per 4 tonnellate l’anno, per questo tanti paesi europei stanno investendo in questo settore.

L’energia in Danimarca

Il vento genera la metà dell’elettricità in Danimarca: questo paese è stato tra i primi a puntare sull’eolico, anche con impianti offshore. Entro il 2030 vogliono quadruplicare l’energia dall’eolico, il surplus di questa energia verrà usata per produrre idrogeno: Presadiretta è entrata nello stabilimento di Everfuel, uno dei più grandi in Europa che è alimentato solo da energie rinnovabili.
Questo impianto venderà anche le energie di scarto, come il calore, per il teleriscaldamento.
L’idrogeno verde è accumulato in tante batterie in serie (poi mandate nella rete), il loro progetto è distribuirlo anche fuori dalla Danimarca.

In Germania nella regione che si affaccia sul mare del nord sono pieni di pale eoliche: sono ovunque perché i contadini si sono messi in società, coltivano e lasciano le pale eoliche sui loro terreni.
Il governo tedesco ha deciso che Amburgo diventerà un grande cantiere per l’idrogeno verde: una centrale a carbone è stata convertita per l’idrogeno verde, che sostituirà il gas naturale entro il 2045, e dovrà riscaldare l’intera città, raccogliendo il calore di scarto da tutte le produzioni industriali (il cui calore non deve essere sprecato).

Intorno al porto di Amburgo sono concentrate decine di industrie pesanti che andranno convertite: questa è la sfida della città che si appoggia proprio all’idrogeno verde, prodotto da energie anche non rinnovabili nel periodo di transizione, ma alla fine si userà solo idrogeno verde.

Negli stessi giorni in cui si sono registrate le interviste, i trattori dei contadini tedeschi sfilavano per le strade protestando contro le scelte dell’Unione Europea, che ha portato al dietro front sui pesticidi. Ma il governo tedesco continua a puntare sulle energie rinnovabili, anche nei grandi processi industriali che hanno bisogno di tanta energia, come quello siderurgico.
Ad esempio alla Arcelor Mittal puntano all’idrogeno verde, al posto del gas (in Germania, non in Italia), per arrivare a produrre acciaio verde.

Comunque due terzi dell’idrogeno verde dovranno essere importati: non saremo mai indipendenti sull’idrogeno dunque, la Germania sarà sempre un consumatore di quello prodotto in altri paesi, per esempio i paesi del nord Europa o i paesi del sud, come il nord Africa.

Dobbiamo prendere l’energia laddove si può, come il nord Africa, e trasformarla in qualcosa che si può trasformare come l’idrogeno: questo è il futuro, nonostante ancora si punti sul gas naturale.

Il grande Hub del gas

In Abruzzo a Sulmona Snam vuole realizzare il centro della rete di smistamento del gas: ma questo progetto, il gasdotto che attraverserà l’appennino, è ancora sulla carta.
Costerà 2,5 miliardi di euro questo progetto che era stato abbandonato e poi risuscitato dal governo Draghi e Meloni poi.
Questo progetto sarà strategicità – spiega la presidente del Consiglio – ma la popolazione locale lo ha criticato per l’impatto ambientale, perché la centrale di Sulmona è in una zona sismica dentro una valle chiusa.
Non ci sarà nessuna ricaduta occupazionale: si tratta di un’opera di pubblica utilità? No perché è stata pensata nei tempi in cui ancora si puntava sul gas, la stessa regione Abruzzo si è detta contraria a questa opera, ma la contrarietà della regione è stata superata dai decreti dei governi Draghi e Meloni.
Il gasdotto dovrebbe passare sotto Paganica, vicino all’Aquila: qui ancora ci sono le cicatrici del terremoto del 2009, poco lontane dal tracciato del gasdotto che prosegue poi verso il nord.
Come si fa a parlare di sicurezza? Le popolazioni sul territorio non credono alle rassicurazioni della Snam e del governo, la gente ha paura.

Ferdinando Galletti è il presidente dell'amministrazione usi civici: a Presadiretta racconta che il suo ok all’opera non lo darà mai, perché prima viene la tranquillità delle persone.

Molti dei proprietari dei terreni su cui dovrà passare il gasdotto hanno già firmato dei documenti in cui consentivano l’opera, ma ora dopo il terremoto temono il pericolo: Snam sta tenendo conto del rischio terremoto, dell’impatto sulle case di questa opera?

L’istituto nazionale di vulcanologia INGV ha confermato queste paure: questoo gasdotto provocherà delle accelerazioni del suolo che potranno essere superiori a quelle previste per l’opera. Il governo Meloni ha chiesto di fare altri studi anche sulla tratta da Sulmona a Foligno e serviranno altri due anni, mentre non si farà nessuna indagine sul tratto verso l’Emilia Romagna.

Ma non si potranno aspettare due anni, perché la Snam deve completare l’opera entro il 2027 per prendere i soldi del pnrr e i lavori devono iniziare entro il primo semestre del 2025, ovvero prima della fine degli studi.

Secondo Snam l’unico tratto dove serve l’analisi di INGV è quello verso Foligno, negli altri tratti le indagini sono sufficienti.

Ma il problema è che il consumo di gas in Italia è in calo: questo è il vero punto, quest’opera è inutile, lo racconta il think tank Ecco.
Anche con una transizione più lieve, il consumo di gas non giustifica investimento, a meno che i consumi di gas crescano (cosa molto improbabile).

Il rischio che la dorsale adriatica verrà ripianato dai consumatori italiani è dunque molto reale: il costo di questo gasdotto, di cui si vanterà questo governo, lo pagheremo noi due volte, prima col Pnrr (che sono soldi dell’Europa) e poi con le bollette.

Salvatore Carollo è stato a capo del trading del gas per Eni: a Presadiretta spiega che questo mercato del gas non interesserà il resto dell’Europa, come nemmeno il gas liquido (che costa anche molto di più).

Perché la Germania dovrebbe comprarsi il gas liquido da noi?

Il presidente Marsilio scarica le colpe al governo Draghi – racconta il conduttore Iacona in trasmissione: il governo Meloni ha solo confermato queste scelte.

Il gas liquido

Per la strategia energetica italiana, fondamentale sarà il rigassificatore davanti Ravenna: in Italia Snam ha acquistato una nave per la rigassificazione, col decreto energia Meloni ha fatto rinascere due progetti per rigassificatori, in Sicilia e in Calabria a Gioia Tauro.

Peccato che, a parte l’essere una fonte energetica vecchia e inquinante, lo stabilimento di Gioia Tauro è abbandonato e usato anche da una comunità di migranti.
A San Ferdinando sono preoccupati del rigassificatore e delle opere accessorie, promesse ma mai messe sulla carta: il sindaco vorrebbe delle garanzie su questa ennesima opera strategica (vecchia e costosa), prima di vedersi depredata un’altra parte del loro territorio.

Conviene investire su questi rigassificatori, la cui costruzione richiederà altri 4-6 anni? Come giustificano queste opere Iren e Surgenia anche di fronte al calo della domanda di gas?
Ci sono ragioni di sicurezza strategica, risponde Iren, che però chiede un forte sostegno economico allo stato, perché sanno benissimo che queste opera non si ripagherebbero da sole. Anche qui saremo sempre noi con le bollette a pagare queste opere.

Abbiamo bisogno anche di nuovi fornitori di gas per il nostro piano: tra i fornitori c’è anche Israele, che vorrebbe essere nostro partner nel piano sull’hub europeo, assieme a noi vorrebbero realizzare un gasdotto dai giacimenti italiani fino a Cipro, poi la Grecia per arrivare alla costa pugliese.

Estmed Poseidon costerebbe miliardi: nemmeno l’Europa ci crede più a questo progetto, ma nonostante questo c’è un grande lavoro di lobby in Parlamento per convincere lo stato a finanziare questa opera.
Le riserve di gas di Israele sono minuscole, anche questo è un fattore che dovrebbe farci riflettere sull’investire o meno su un nuovo gasdotto.

Estmed non servirà nemmeno a trasportare idrogeno verde, perché nel futuro l’idrogeno sarà prodotto – come si è visto prima – laddove sorgono i grandi impianti di elettrolisi.

Combustibili alternativi

Ci sono carburanti a base di idrogeno che possono funzionare anche nei motori termici: il problema è che costa tanto e dunque si pensa di usarlo nei trasporti a lungo raggio, come navi o aerei.

L’idrogeno può essere anche usato nei mezzi pesanti, come i trattori che spostano le merci nei porti: li stanno sperimentando sempre all’Enea con le loro fuel cell, che funzionano in un processo di elettrolisi inversa, l’idrogeno diventa acqua e energia elettrica (vapore acqueo e nessuna emissione di co2).
Ci sono anche le auto ad idrogeno: sono poche e funzionano anche loro col principio della fuel cell, emettono acqua a partire dall’idrogeno.
Sono auto con motore elettrico, con una batteria più piccola, nei serbatoi è contenuto idrogeno e non benzina: il modello della BMW ha una autonomia tra i 5-600 km, al momento sono solo prototipi, ma alla fine di questo decennio pensano di produrla in serie.

Lo svantaggio è il costo e la mancanza di una infrastruttura capillare per il rifornimento dell’idrogeno: in Italia ce ne sono solo due, in Germania ne esistono 60 circa.

Le batterie senza litio

Oggi stiamo costruendo le prime batterie al sodio, senza nemmeno un grammo di litio: questa è la nuova sfida dell’industria, alla faccia dei tanti detrattori dell’elettrico. Non solo, le stesse batterie al litio stanno diventando sempre più efficienti.

Assieme alla rivista indipendente Motor1.com, Presadiretta ha testato nuove auto elettriche per misurarne le performance, in termini di autonomia, di costo per km. Serviranno sempre più auto elettriche, da collegare alla rete per stabilizzarne i picchi quando serve.

In Svezia, dove circolano tante auto elettrico (nonostante il freddo) stanno lavorando a nuove batterie agli ioni di sodio, con un processo più semplice – raccontano dalla Altris: Il processo di produzione per gli ioni di litio o di sodio è lo stesso al 95%, possiamo usare gli stessi macchinari. Il vantaggio è che rispetto alle batterie al litio qui possiamo usare un unico tipo di rame anziché due ha dichiarato all’inviato Alessandro Macina il co-fondatore e CTO di AltrisRonnie Mogensen fare le batterie al sodio è un processo più semplice e le batterie sono più facili da riciclare, i materiali sono sostenibili e tutto quello che c’è in queste celle viene dall’Europa, non bisogna più importare niente.
Dunque non ci sarebbe più bisogno dei metalli delle terre rare con questa tecnologia basata sugli ioni di sodio che al momento è usata per le cosiddette applicazioni stazionarie, dove vengono utilizzate come batterie di accumulo per l’energia prodotta dalle rinnovabili, ma qui in Svezia sono pronti per il grande salto e cioè portare le batterie al sodio anche nel settore dei trasporti, nelle auto elettriche. Sarebbe un bel passo in avanti per la filiera dell’auto elettrica che ci renderebbe più indipendenti dalla Cina.
“Abbiamo celle che possono caricarsi in 15 minuti e sono utili in applicazioni come i veicoli elettrici o come quando è necessaria molta energia in tempi rapidi, la densità energetica diminuisce leggermente, ma possiamo creare celle al sodio per ogni applicazione, la cella giusta per il lavoro giusto e per il consumatore non cambia nulla, userà la stessa colonnina di ricarica di prima, sodio o litio l’infrastruttura è la stessa. Parliamo di pochi anni al massimo, non stiamo parlando di un decennio. Abbiamo clienti automotive che ce le chiedono già ora. Questa cella è davvero molto vicina al mercato. Stiamo recuperando terreno sul litio settimana dopo settimana” ha aggiunto ancora Mogensen a PresaDiretta.

È molto promettente questa tecnologia: ad oggi queste batterie sono più pesanti, ma col tempo diventeranno sempre meno ingombranti: alla Altris immaginano un futuro dove le batterie al litio e al sodio conviveranno, per applicazioni diverse.

A questo progetto delle batterie agli ioni di sodio è interessata la Northvol, il più grande produttore europeo di batterie, che stanno aprendo la prima gigafactory europea del riciclo delle attuali batterie al litio. Dopo aver aperto un primo impianto in Norvegia destinato al riciclo del più grande mercato di auto elettriche, in questi laboratori hanno messo a punto un nuovo processo automatizzato in cui si fa tutto, dal disassemblaggio fino alla black mass, la polvere catodica contenente i materiali per le nuove batterie. Emma Nehrenheim è la responsabile sostenibilità ambientale di NorthVolt “questa polvere nera contiene tutto, grafite, nichel, cobalto, manganese e litio nel processo, aumentando lentamente il ph, riusciamo a separare tutti i diversi metalli fin quando non li avremo ognuno nella sua forma più pura”, il nichel o il cobalto riciclato, che la responsabile ha mostrato al giornalista, spiegando come “la cosa bella dei metalli è che possono essere riportati alla loro forma elementare, cobalto rinnovabile che non è estratto da una miniera, è lo stesso cobalto che continuiamo a tenere in circolo, è questa la chiave della sostenibilità ambientale per i veicoli elettrici perché, o apriamo nuove miniere in Europa oppure investiamo nel riciclo. Ma credo che questo investimento valga molto di più a lungo termine sia in termini di sostenibilità che economici.”
La nuova gigafactory riciclerà 125mila tonnellate di materiali per batterie all’anno, il vantaggio dei metalli riciclati è che le loro prestazioni nelle nuove batterie sono equivalenti o superiori a quelli dei metalli appena estratti e poiché non esauriscono mai le loro proprietà, possono anche essere riciclati più volte, così nel 2021 in questi laboratori NorthVolt ha prodott
o le prime celle 100% riciclate.

Nel loro impianto il riciclo si fa da batterie che vengono da tutto il nord Europa: la strategia è rendere l’Europa indipendente dalla Cina, per le batterie e per il litio, occorre essere pronti a far partire il processo industriale del riciclo appena arriveranno a fine vita le prime batterie.

L’Europa ha messo obblighi di riciclo su ogni materiale e questo farà nascere una grande industria europea del riciclo. Sono previste 41 gigafactory al 2030 con investimenti per 2,6 miliardi ma i ricavi saranno almeno il doppio, ha calcolato il Politecnico di Milano.
Anche per l’Italia il riciclo delle batterie potrebbe essere un mercato promettente: il professor Colledani parla di un mercato da almeno 600 ml di euro l’anno e questa promessa del riciclo è quella che rende l’elettrico diverso dal motore endotermico.

Tutti le grida d’allarme sui rischi del motore elettrico, che ci renderà dipendenti dalla Cina, sono solo propaganda. Oppure ignoranza.

Quanto idrogeno verde produrremo (coi soldi del pnrr)?

Sono circa 3,6 miliardi di euro i fondi del pnrr destinati all’idrogeno verde: Presadiretta è andata a Figline Valdarno, in provincia di Firenze, dove un’azienda italiana attiva nelle energie rinnovabili prevede di installare 100 megawatt di fotovoltaico per riconvertire un’ex grande area industriale in una Hydrogen Valley: produrre idrogeno verde può essere un buon modo per riutilizzare siti industriali dismessi ma che abbiano ancora infrastrutture utilizzabili.

Il CEO di Ge-Group Federico Parma racconta che in questo sito ci sia ancora una linea per l’alta tensione già connessa, basta girare una leva dell’interruttore, sono presenti 11 pozzi di acqua, una condizione fondamentale per andare a produrre, ci sono 60mila metri quadri coperti e poi il sito è su una dorsale della A1, quindi in una situazione favorevolissima, come tanti altri siti dismessi, “chi è che vorrebbe dieci raffinerie di più in Italia, ma dieci elettrolizzatori ad idrogeno in più non creano problemi, male male emettono ossigeno.. ”
In questo progetto con il calore di scarto per la produzione di idrogeno si climatizza una vertical farm che coltiva in ambiente protetto frutta e ortaggi mentre con l’ossigeno si alimentano allevamenti ittici.
Ma per il fatto che questo progetto è così vario e non prevede la produzione di solo idrogeno verde gli ha impedito di accedere ai fondi del pnrr.

Lo racconta ancora il CEO: “non siamo riusciti in alcun modo ad intercettare alcun fondo per finanziamento pubblico, tenendo conto che questo progetto rientra in dodici misure del pnrr. Creare un’economia circolare dove è tutt’uno non è stato proprio concepito nel pnrr. Fondamentalmente andiamo avanti con soldi 100% privati. ”

Per l’idrogeno in Italia dai fondi pubblici del pnrr sono stanziati 3,6 miliardi di euro, oltre 700ml sono destinati proprio alla creazione di siti di Hydrogen Valley con cui produrre 700 mila tonnellate di idrogeno verde da qui al 2030. ReCommon sta seguendo questi progetti: “lo scenario migliore è quello dove si produce e si utilizza in loco per ad esempio decarbonizzare le industrie ” racconta Elena Gerebizza a Presadiretta, per evitare i problemi del trasporto e della distribuzione dell’energia.
Di progetti simili finanziati dal pnrr ce ne sono più di 50 in quasi tutte le regioni d’Italia, protagonisti sono i grandi operatori dell’energia da Snam a Eni. Quelli dell’associazione ReCommon hanno fatto i conti e si sono accorti che con i soldi stanziati si produrrà solo una minima parte di idrogeno verde, prodotto cioè con le energie rinnovabili, solo 7mila tonnellate: “siamo molto lontani dagli obiettivi e questo lascia immaginare che gli elettrolizzatori che si installeranno nelle Hydrogen Valley utilizzeranno sia energia prodotta in loco, principalmente da fotovoltaico, ma anche energia che circola nella rete [dove l’energia rinnovabile è solo al 40%], quind
i sarà un idrogeno prodotto tramite elettrolisi ma non è necessariamente verde.”

In Italia potremmo produrre poco idrogeno verde, perché manca l’energia rinnovabile di partenza – spiega il professor Setti a Bologna: l’idrogeno verde che parte da un principio buono, parte male in Italia dove manca il surplus di energia rinnovabile. Gli elettrolizzatori saranno alimentati da impianti di rinnovabili dedicati altrimenti prendiamo l’idrogeno che arriva dalla rete.
Il rischio che tutto l’idrogeno che produrremo sarà generato da fonti non green: stiamo investendo per sviluppare un mercato dell’idrogeno che porterà vantaggio solo ai grandi player del settore, che hanno già una filiera pronta.

Oggi paghiamo il prezzo di non aver installato tutta l’energia rinnovabile come avremmo dovuto fare nel passato: siamo appena al 40% dell’energia rinnovabile sul totale, dovremmo arrivare al 60%, c’è ancora una lunga strada da percorrere.

Anteprima Presadiretta – A tutto idrogeno

A che punto è la scommessa per l’idrogeno verde, la fonte per l’energia green su cui hanno puntato Eni e Snam e il governo Meloni che ha intenzione di trasformare l’Italia nell’hub del gas?

L’idrogeno verde, secondo le promesse, dovrebbe alimentare le navi, gli aerei, le acciaierie: sarebbe tutto bello, ma è un sogno realizzabile nel futuro o è già realtà?


Presadiretta è andata a Figline Valdarno, in provincia di Firenze, dove un’azienda italiana attiva nelle energie rinnovabili prevede di installare 100 megawatt di fotovoltaico per riconvertire un’ex grande area industriale in una Hydrogen Valley: produrre idrogeno verde può essere un buon modo per riutilizzare siti industriali dismessi ma che abbiano ancora infrastrutture utilizzabili.

Il CEO di Ge-Group Federico Parma racconta che in questo sito c’è ancora una linea per l’alta tensione già connessa, basta girare una leva dell’interruttore, sono presenti 11 pozzi di acqua, una condizione fondamentale per andare a produrre, ci sono 60mila metri quadri coperti e poi il sito è su una dorsale della A1, quindi in una situazione favorevolissima, come tanti altri siti dismessi, “chi è che vorrebbe dieci raffinerie di più in Italia, ma dieci elettrolizzatori ad idrogeno in più non creano problemi, male male emettono ossigeno.. ”
In questo progetto con il calore di scarto per la produzione di idrogeno si climatizza una vertical farm che coltiva in ambiente protetto frutta e ortaggi mentre con l’ossigeno si alimentano allevamenti ittici.
Ma per il fatto che questo progetto è così vario e non prevede la produzione di solo idrogeno verde gli ha impedito di accedere ai fondi del pnrr.

Lo racconta ancora il CEO: “non siamo riusciti in alcun modo ad intercettare alcun fondo per finanziamento pubblico, tenendo conto che questo progetto rientra in dodici misure del pnrr. Creare un’economia circolare dove è tutt’uno non è stato proprio concepito nel pnrr. Fondamentalmente andiamo avanti con soldi 100% privati. ”

Per l’idrogeno in Italia dai fondi pubblici del Pnrr sono stanziati 3,6 miliardi di euro, oltre 700ml sono destinati proprio alla creazione di siti di Hydrogen Valley con cui produrre 700 mila tonnellate di idrogeno verde da qui al 2030. ReCommon sta seguendo questi progetti: “lo scenario migliore è quello dove si produce e si utilizza in loco per ad esempio decarbonizzare le industrie ” racconta Elena Gerebizza a Presadiretta, per evitare i problemi del trasporto. Di progetti simili finanziati dal pnrr ce ne sono più di 50 in quasi tutte le regioni d’Italia, protagonisti sono i grandi operatori dell’energia da Snam a Eni. Quelli dell’associazione ReCommon hanno fatto i conti e si sono accorti che con i soldi stanziati si produrrà solo una minima parte di idrogeno verde, prodotto cioè con le energie rinnovabili, solo 7mila tonnellate: “siamo molto lontani dagli obiettivi e questo lascia immaginare che gli elettrolizzatori che si installeranno nelle Hydrogen Valley utilizzeranno sia energia prodotta in loco, principalmente da fotovoltaico ma anche energia che circola nella rete [dove l’energia rinnovabile è solo al 40%], quindi sarà un idrogeno prodotto tramite elettrolisi ma non è necessariamente verde.”

I giornalisti di Presadiretta sono andati a Livorno, dove ha sede uno degli stabilimento della Erre2, che produce elettrolizzatori da più di 20 anni e collabora con Cnr, Enea e Università di Pisa:

PresaDiretta ha visitato gli stabilimenti di produzione, il dipartimento di ricerca e sviluppo per vedere da vicino le innovazioni del settore, intervistando i vertici dell’azienda e il fondatore e presidente Enrico D’Angelo. Quando D’Angelo ha iniziato 38 anni fa a costruire i primi elettrolizzatori in maniera artigianale, per l’industria orafa e altri settori di nicchia, mai si sarebbe immaginato l’esplosione di questa industria. Oggi ha 100 dipendenti in buona parte soci dell’azienda e una nuova sede in apertura, perché il loro sapere è finito al centro della transizione energetica.

Presadiretta ha visitato anche il centro ricerche di Enea di Casaccia, la prima HydrogenValley italiana.


Mentre in Italia il governo Meloni (assieme a Eni e Snam) sta puntando su questo progetto del gas, Presadiretta è andata in Svezia a visitare la fabbrica dell’azienda Altris che produce le batterie agli ioni di sodio (che si ricava dal sale) e non più al litio:

Il processo di produzione per gli ioni di litio o di sodio è lo stesso al 95%, possiamo usare gli stessi macchinari. Il vantaggio è che rispetto alle batterie al litio qui possiamo usare un unico tipo di rame anziché due ha dichiarato all’inviato Alessandro Macina il co-fondatore e CTO di AltrisRonnie Mogensen fare le batterie al sodio è un processo più semplice e le batterie sono più facili da riciclare, i materiali sono sostenibili e tutto quello che c’è in queste celle viene dall’Europa, non bisogna più importare niente.
Dunque non ci sarebbe più bisogno dei metalli delle terre rare con questa tecnologia basata sugli ioni di sodio che al momento è usata per le cosiddette applicazioni stazionarie, dove vengono utilizzate come batterie di accumulo per l’energia prodotta dalle rinnovabili, ma qui in Svezia sono pronti per il grande salto e cioè portare le batterie al sodio anche nel settore dei trasporti, nelle auto elettriche. Sarebbe un bel passo in avanti per la filiera dell’auto elettrica che ci renderebbe più indipendenti dalla Cina.
“Abbiamo celle che possono caricarsi in 15 minuti e sono utili in applicazioni come i veicoli elettrici o come quando è necessaria molta energia in tempi rapidi, la densità energetica diminuisce leggermente, ma possiamo creare celle al sodio per ogni applicazione, la cella giusta per il lavoro giusto e per il consumatore non cambia nulla, userà la stessa colonnina di ricarica di prima, sodio o litio l’infrastruttura è la stessa. Parliamo di pochi anni al massimo, non stiamo parlando di un decennio. Abbiamo clienti automotive che ce le chiedono già ora. Questa cella è davvero molto vicina al mercato. Stiamo recuperando terreno sul litio settimana dopo settimana” ha aggiunto ancora Mogensen a PresaDiretta.

A questo progetto è interessata la Northvol, il più grande produttore europeo di batterie, che stanno aprendo la prima gigafactory europea del riciclo delle attuali batterie al litio. Dopo aver aperto un primo impianto in Norvegia destinato al riciclo del più grande mercato di auto elettriche, in questi laboratori hanno messo a punto un nuovo processo automatizzato in cui si fa tutto, dal disassemblaggio fino alla black mass, la polvere catodica contenente i materiali per le nuove batterie. Emma Nehrenheim è la responsabile sostenibilità ambientale di NorthVolt “questa polvere nera contiene tutto, grafite, nichel, cobalto, manganese e litio nel processo, aumentando lentamente il ph, riusciamo a separare tutti i diversi metalli fin quando non li avremo ognuno nella sua forma più pura”, il nichel o il cobalto riciclato, che la responsabile ha mostrato al giornalista, spiegando come “la cosa bella dei metalli è che possono essere riportati alla loro forma elementare, cobalto rinnovabile che non è estratto da una miniera, è lo stesso cobalto che continuiamo a tenere in circolo, è questa la chiave della sostenibilità ambientale per i veicoli elettrici perché, o apriamo nuove miniere in Europa oppure investiamo nel riciclo. Ma credo che questo investimento valga molto di più a lungo termine sia in termini di sostenibilità che economici.”
La nuova gigafactory riciclerà 125mila tonnellate di materiali per batterie all’anno, il vantaggio dei metalli riciclati è che le loro prestazioni nelle nuove batterie sono equivalenti o superiori a quelli dei metalli appena estratti e poiché non esauriscono mai le loro proprietà, possono anche essere riciclati più volte, così nel 2021 in questi laboratori NorthVolt ha prodotti le prime celle 100% riciclate.
L’Europa ha messo obblighi di riciclo su ogni materiale e questo farà nascere una grande industria europea del riciclo. Sono previste 41 gigafactory al 2030 con investimenti per 2,6 miliardi ma i ricavi saranno almeno il doppio, ha calcolato il Politecnico di Milano. 

La scheda del servizio:

Quale gas per il nostro domani? “PresaDiretta” – in onda lunedì 8 aprile alle 21.20 su Rai 3 con Riccardo Iacona - mette a fuoco l'idrogeno verde nella transizione energetica.  Che ruolo può avere nel nostro mix energetico? I piani del Governo per trasformare l’Italia in hub del gas. A che punto siamo? “A tutto idrogeno” fa il punto sull’Italia e sulle strategie in campo per raggiungere la piena decarbonizzazione entro il 2050. La sfida è ora. Secondo molti è il vero protagonista della transizione green, il tassello mancante che renderà possibile la decarbonizzazione dei nostri sistemi energetici. È l’idrogeno verde, il gas pulito, prodotto dall’acqua, che non emette CO2. “PresaDiretta” è stata presso il Centro Ricerche Enea di Casaccia, la prima Hydrogen Valley italiana, per scoprire come si produce e quali sono le sue applicazioni.  Fondamentale è il suo ruolo per gestire e immagazzinare l'energia in eccesso prodotta da fonti rinnovabili. 

In sommario anche una visita in esclusiva alla prima grande centrale europea pronta a produrre idrogeno verde – un impianto da 20 Mw di potenza in Danimarca – e una ad Amburgo, in Germania, dove si sta realizzando un parco energetico in cui l’idrogeno verde giocherà un ruolo di primo piano. In questi paesi si stanno facendo sperimentazioni per sfruttare il potenziale dell’idrogeno in settori tradizionalmente a impronta fossile come la chimica e la siderurgia. È questa la chiave per un futuro più sostenibile?
Obiettivo, poi, sull’Italia: il Governo vuole realizzare rigassificatori e gasdotti per trasformare il Paese nella porta di ingresso del gas in Europa: è il piano "Italia Hub del Gas". “PresaDiretta” punta l’obiettivo su alcuni progetti chiave di questa strategia: la Dorsale Adriatica, un investimento di 2,4 miliardi, 400 chilometri che dovrebbero collegare l’Abruzzo con l’Emilia-Romagna; il rigassificatore di Gioia Tauro in Calabria che mira ad essere il più grande d’Europa; il progetto EastMed e Poseidon, il gasdotto che dovrebbe collegare Israele alla Puglia.
Non mancano i progetti legati all’idrogeno verde. La strategia italiana è efficace e sostenibile? Quanti progetti ci sono in Italia e come sono finanziati? “PresaDiretta” è stata a Figline, in Toscana, dove è stato creato il primo polo energetico circolare agroalimentare.

E infine, un aggiornamento su auto e batterie elettriche: in Svezia, per vedere come nascono le batterie agli ioni di sodio e per visitare la prima gigafactory europea del riciclo batterie. Un modello di circolarità che potrebbe finalmente aiutarci a superare i modelli produttivi ed economici degli attuali motori endotermici.  “A tutto idrogeno” è un racconto di Riccardo Iacona con Marcello Brecciaroli, Marianna De Marzi, Alessandro Macina, Fabrizio Lazzaretti.

Le anticipazioni dei servizi che andranno in onda questa sera le trovate sulla pagina FB o sull'account Twitter della trasmissione.

04 aprile 2024

Segreti e lacune – Le stragi tra servizi segreti, magistratura e governo di Benedetta Tobagi

 

Introduzione

Questo saggio prende in esame la dialettica tra magistratura servizi segreti e potere esecutivo (in particolare la presidenza del Consiglio l'autorità politica a cui risponde l'intelligence) in relazione alle inchieste e ai processi per le stragi terroristiche avvenute tra il 1969 del 1980. La ricerca si concentra sul periodo compreso tra la riforma dei servizi segreti del 1977 e la metà degli anni novanta, quando l'Italia comincia a riassestarsi dopo i terremoti politici seguiti alla fine della guerra fredda e si vale di documentazione di intelligence inedita declassificata a partire dal 2014 [la direttiva Renzi].

A partire da questa prospettiva il saggio affronta due questioni più ampie che attraversano tutte le grandi democrazie contemporanee, connesse al problema della trasparenza (disclosure) e al diritto di sapere (right to know). Da una parte, le possibilità e limiti di un controllo politico, pubblico e democratico sui servizi segreti; in particolare se come si possa esercitarlo ex post, a tempo debito, attraverso la documentazione d'archivio anche al di fuori dell'ambito della giustizia penale. Dall'altra, più in generale ancora, come i limiti della trasparenza e le vaste lacune documentarie condizionino la ricostruzione storica di vicende, nel nostro caso dell'Italia repubblicana, in cui la dimensione politica si intreccia o collide con quella criminale, per riflettere su presupposti di una metodologia di ricerca che affronti in modo rigoroso anche la dimensione occulta della vita politica di un paese.

Arrivati alla fine di questo - ben documentato - saggio sui servizi segreti (in relazione al periodo tra gli anni sessanta – inizio novanta) prevale una sensazione di sconforto: le tante lacune della nostra storia moderna che riguardano in particolar modo le stragi avvenute in Italia negli anni della strategia della tensione potrebbero non venir mai colmate per l’impossibilità ad accedere agli archivi segreti custoditi, possiamo dire gelosamente, dai nostri servizi di sicurezza (e non solo loro se pensiamo agli archivi dell’Arma).

Per usare l’espressione del procuratore di Catanzaro Porcelli, uno dei magistrati del processo per la strage di Piazza Fontana, non sappiamo nemmeno quanti scheletri abbiamo nei nostri armadi.

Non è colpa dei servizi di sicurezza, dell’intelligence in sé: sono apparati dello Stato che, per costituzione (e in rispetto si spera della Costituzione) devono lavorare ai confini della legge, devono muoversi in una zona grigia tra Stato e antistato, raccogliere informazioni su possibili rischi sulla nostra sicurezza. Ma sono servizi che devono anche rispondere al principio di trasparenza, fin dove possibile, nei confronti di noi cittadini, attraverso il Parlamento e nei confronti della magistratura.

La storia recente però ci dice che non è sempre stato così: al centro della ricerca di Benedetta Tobagi ci sono quelli che sono definiti come dei veri arsenali, gli archivi dei servizi dove sono state accumulate, nel corso degli anni, le più svariate informazioni. Non sempre per fini previsti dalla loro funzione e non sempre nel rispetto dei principi della Costituzione.

Stiamo parlando dei segreti di Stato che i servizi, con l’avvallo della presidenza del Consiglio, hanno opposto nei confronti della magistratura quando quest’ultima chiedeva informazioni che potessero far luce su stragi, attentati, i tanti episodi che hanno costellato il periodo della strategia della tensione che hanno causato – tra il 1969 e il 1984 – 135 morti.

Stiamo parlando dei depistaggi, attuati da esponenti dei servizi, per bloccare, intralciare l’azione della magistratura che, ad eccezione di pochi casi, non è stata in grado di arrivare ad una sentenza di condanna sui responsabili e sui mandanti.

Stiamo parlando di episodi specifici come la velina del SID del dicembre 1969 inviata ai magistrati milanesi grazie a cui, assieme all’azione depistante dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale, fu creata la falsa pista rossa sugli Anarchici responsabili della bomba di Piazza Fontana.
Stiamo parlando del depistaggio messo in atto dal Sismi (controllato dalla P2) per indirizzare i magistrati bolognesi verso la fantomatica pista internazionale dietro la bomba alla stazione del 2 agosto 1980.

Come racconta in modo chiaro l’autrice, ci sono notizie che devono rimanere riservate o segrete, ma il problema di questo paese è che ci sono anche notizie, informazioni “indicibili”, che non possono in alcun modo essere divulgate al paese.

Pensiamo alle protezione di cui hanno di fatto goduto gli stragisti neri grazie a pezzi dello Stato mentre altri pezzi dello stesso Stato cercavano le prove degli attentati.

Pensiamo anche al rapporto stato – mafia, un tema che è rimasto tabù per anni, al centro del processo passato alla cronaca come processo sulla trattativa (ma che invece parlava d’altro).

Ma oltre alle informazioni riservate e indicibili, esiste anche un altro genere di informazione raccolta e gestita in modo “sporco” dai servizi: si tratta dei dossier, legali o molto spesso illegali, su personaggi ostili alla maggioranza del momento, contro i magistrati che si permettevano di indagare (e magari di portare a processo i vertici delle istituzioni, come successo a Catanzaro).
Che fine hanno fatto questi dossier, queste notizie, spesso scandalistiche, spesso legate alla sfera intima dei vari personaggi “attenzionati”: non lo sappiamo.

Non sappiamo che fine abbiano fatto i dossier del Sifar raccolti all’indomani del piano Solo, non sappiamo che fine abbiano fatto i fascicoli dell’Ufficio Affari Riservati. La pratica dei dossier non è solo memoria del passato, visto quello che si è scoperto sul Sismi di Pollari e dell’ufficio di Pio Pompa.

Come mai in Italia è successo tutto questo? I depistaggi, i comportamenti fuori dalla Costituzione e non solo fuori dalla legge benché legittimi per la difesa delle istituzioni come uno ci si aspetterebbe? I dossier con cui portare avanti le azioni di ricatto che sono state alla base della prima e della seconda repubblica?

Nonostante questo volume non abbia l’ambizione di raccontare la storia dei servizi, Benedetta Tobagi affronta il cuore oscuro di questo paese, intrecciato alla genesi della repubblica nata dai panni del regime (i vertici di magistratura, esercito, pezzi dei servizi erano in servizio sotto il fascismo) e in un mondo diviso in blocchi secondo gli accordi di Yalta.

I nostri servizi dovevano essere obbedienti alla Repubblica ma dovevano essere fedeli anche a quanto deciso oltreoceano, a Washington. E spesso tra queste due fedeltà a prevalere era la seconda.

I nostri servizi, nati come servizi militari, sono rimasti per anni senza una vera regolamentazione, sul segreto di stato, sulla trasparenza degli atti. C’è voluta la riforma del 1977 per iniziare a costituzionalizzare il mondo dell’intelligence italiana, iniziando a creare una struttura di controllo democratico, il Cesis, organo parlamentare, per togliere parte della discrezionalità e del controllo che fa capo normalmente alla presidenza del Consiglio.

Ma anche la riforma del 1977, come racconta ampiamente Benedetta Tobagi, ha mancato i suoi obiettivi: i tempi non erano maturi, la presenza del mondo in blocchi, l’ostilità della politica e quella degli “spioni”. C’è voluta una seconda riforma, quella del 2007 che ha portato alla nascita di Aise e Aisi, per formalizzare la durata del segreto di Stato.

Nonostante tutte le riforme, tutti i passi in avanti, molto rimane da fare: negli ultimi due capitoli del saggio si parla degli archivi dei servizi, al plurale, perché nemmeno sappiamo quanti siano in Italia. E nemmeno sappiamo come attingere alle informazioni in esso contenuti, nemmeno sappiamo se ancora contengono tutte le informazioni che vi erano contenute.

Esiste l’archivio Russomanno, dal nome del dirigente dell’Ufficio Affari Riservati, legato al prefetto Umberto D’Amato, dominus dei servizi del Viminale, ma non abbiamo le “chiavi” per accedere ai contenuti, perché le cartelle seguono una classificazione singolare.
Lo stesso vale per l’archivio di Gladio, la struttura italiana della rete Stay Behind, resa pubblica con una mossa a sorpresa da Andreotti nel 1990: ma è un archivio parziale, mancano molti documenti, come manca probabilmente l’elenco completo dei “gladiatori”.

L’accesso parziale, impedito dalle leggi, dalla burocrazia di Stato, dalla scomparsa colpevole di documenti importanti, rende la conoscenza della nostra storia solo parziale. Tutto questo fa gioco di quanti, potendo nascondere il passato, soprattutto le pagine più imbarazzanti, possono permettersi oggi continuare ad avere un ruolo politico. Gli eredi dei politici di ieri, dei partiti di ieri, responsabili almeno politicamente di quanto successo in Italia.

Sono gli eredi di quella “destra profonda” che, come racconta Aldo Giannuli “comprende settori della classe dirigente, del mondo economico, dalle banche all’industria e degli ambienti militari; una ‘destra profonda’ ben più estesa della sua espressione parlamentare che, come denuncia più volte Aldo Moro a partire dal 1962, una componente conservatrice e reazionaria che ha tentato di sfruttare a fondo la guerra fredda per bloccare o comunque ostacolare una più profonda democratizzazione della società”.

Ecco il perché delle bombe, dei depistaggi per addossare le colpe alla sinistra, dei dossier per ricattare politici o esponenti pubblici. Ecco il perché dei legami con la destra estrema, da Ordine Nuovo ad Avanguardia Nazionale, utili idioti della strategia della tensione.

La politica, sempre, non solo negli anni della strategia della tensione, ha usato i servizi come fosse una sua ditta privata (uso l’espressione che il direttore del Sid Miceli rivolse al ministro Tanassi a Catanzaro, riferendosi al caso Giannettini).

Chi controlla il passato controlla il futuro – sta scritto così nel romanzo di George Orwell, 1984: purtroppo in Italia rischiamo questo, in assenza di una verità storica, riconosciuta, condivisa da tutti, che il nostro passato risulti incompleto e dunque manipolabile. E che questa assenza di memoria storica condizioni ancora il nostro futuro come Repubblica democratica fondata sull’antifascismo (valore, quest’ultimo, nemmeno riconosciuto dall’attuale maggioranza di governo).

Servirebbe un ulteriore sforzo da parte della politica e una maggiore pressione dell’opinione pubblica, che non può essere più trattata come un bambino che non è in grado di comprendere. Gli archivi sono un’importante arma di potere, di condizionamento e di potenziale ricatto. Devono essere gestiti da un ente terzo, non possono essere lasciati nella discrezionalità di pochi pezzi delle istituzioni “senza un vero controllo”.

L'atteggiamento ingannevole dei servizi che abbiamo incontrato innumerevoli volte, quando ripetevano alle autorità giudiziaria di aver consegnato tutto il materiale di interesse - per essere poi regolarmente smentiti - si ripropone ora a fronte della pressione dell'opinione pubblica per i versamenti e la declassifica. Finché l'ente produttore [i servizi] mantiene pieno controllo e accesso esclusivo al proprio archivio e seleziona in autonomia cosa eventualmente versare all’Archivio Centrale dello Stato, questo vanifica ogni speranza di controllo democratico ex post da parte delle istituzioni preposte, del giornalismo investigativo e della ricerca storica.

Non saremo mai una vera Repubblica democratica e antifascista finché non riusciremo a rendere effettivo questo controllo democratico, che non ci riporti indietro ai tempi della P2, dove il potere, le nomiche, erano altrove rispetto al Parlamento.
A questo va aggiunta un’altra considerazione: oggi al governo abbiamo una destra che non solo non si dichiara antifascista ma nemmeno ha reciso del tutto i legami con la destra degli anni Settanta (a prescindere dalle sentenze della magistratura), ma che sta usando tutto il suo potere per riscrivere la storia recente del nostro paese e cancellare colpe e sentenze già passate in giudicato (come la strage alla stazione di Bologna).

Non è solo un problema degli storici, ma della nostra vita di cittadini.

Il video della presentazione del libro fatta da Claudia Moroni della Fondazione Flamigni

La scheda del libro sul sito di Einaudi

I link per ordinare il libro su Ibs e Amazon